Chi ama la Calabria non è colui che ignora la realtà in cui vive, che non è certo priva di grandi meriti e altrettante bellezze ma da sole. Quando si mette l’accento sulle cose che non vanno, sulle responsabilità di chi le accetta e non fa nulla per rimuoverle – fatta eccezione per un generico e rituale atto d’accusa verso “i politici”, senza distinzioni (il modo migliore per renderli inamovibili, “tutti colpevoli, nessun colpevole”) – l’umore delle persone, non tutte ma molte sì, tradisce il disappunto e il dissenso.
Cito il prof. Giovanni Sole – che con i suoi saggi ci rappresenta come calabresi con onestà intellettuale ma senza compiacere il nostro vittimismo – parla del sentimento di ineluttabilità e d’impotenza di cui si dà la colpa “al destino avverso”. Questo significa che intere generazioni si sentono non responsabili per il fallimento delle proprie azioni (o per l’assenza di ogni azione): “nessuno può sfuggire al proprio destino, la realtà si subisce e si accetta”.
Quando noi stessi, calabresi, ci chiediamo perché nessuno o pochi, di fronte ad una condizione sempre più precaria dei nostri corregionali, non faccia nulla anzi nelle poche occasioni in cui può manifestare il proprio giudizio severo e la sua voglia di cambiare facendo un po’ di pulizia nelle oligarchie perenni – il voto o l’opposizione sociale – non si distingue dalla massa, segue l’onda, omaggia potenti che spesso sono solo pre-potenti e coltiva il malaffare con la propria inerzia.
Cito uno scritto di Adolfo Bianchi del 1915 riportato da Sole. Bianchi si considera un cattivo patriota e confessa “di non sentire quel decantato amore per il natio loco, magnificamente sfruttato dai politici e dai tribuni”. Bianchi ha il sospetto che “i maggiori nemici della Calabria siano stati proprio quei calabresi che si cibavano di antiche memorie a cui bastava citare Campanella e Telesio per sentirsi appagati”. A corollario di questi stereotipi facevano l’apologia della Calabria bella ospitale generosa e “maledicevano il governo ladro ripetendo il vecchio adagio: si stava meglio quando si stava peggio”.
Per la verità questo falso elogio del passato non è una prerogativa solo dei calabresi. Lo si sente o meglio lo si sentiva nei decenni passati quando senza avere il coraggio di dirlo apertamente una vena di nostalgia per il periodo fascista c’era eccome.
Era camuffata e banale: i treni in orario, l’ordine – l’eterna aspirazione italica che Pietro Nenni riassumeva con la bonomia romagnola con queste parole: “ogni italiano vorrebbe avere a disposizione personale due carabinieri”.
Immaginate oggi come il mito dell’ordine vada alla grande: troppi immigrati, troppi nivuri, troppa tolleranza per drogati e ubriachi ecc… Deve essere drammatica la condizione odierna dei nostalgici dell’ordine, non meglio specificato, vedendo che nel mondo l’ordine che si costruiva con la supremazia indiscussa dell’America e con l’affiancamento fedele di mezza Europa e di tante altre parti del mondo è completamente saltato. E non si riesce a immaginare quale ordine nuovo ci riserva il futuro.
Tra i calabresi quelli che ne sono consapevoli sono i giovani che in numero crescente lasciano la loro terra e, a parte i ritorni obbligati per le festività di fine anno, sentono che la distanza fisica tra la Calabria e i luoghi sparsi nel mondo dove vivono e lavorano è minore di quella sentimentale e nostalgica.
Sono loro i calabresi in gran parte più severi con i corregionali che non avvertono l’intollerabilità di una condizione nella quale la meritocrazia è una chimera, il nepotismo dilaga nelle università e nelle strutture pubbliche, che non c’è circolazione libera di idee e opinioni perché l’informazione, grazie anche alla pavidità di molti, è salvo poche eccezioni una brutta copia della stampa di tutti i regimi illiberali.
Le previsioni dicono che nel 2050 i calabresi in Calabria saranno di poche centinaia di migliaia sopra il milione. I demografi con questi numeri parlano di iniziale desertificazione. A chi daremo (daranno i miei successori) la colpa? Al destino cinico e baro, alle repliche fedeli degli odierni governanti, ai garibaldini che sono venuti a rompere i cabbasissi nell’Eden borbonico o a qualche fitusu che pretende niente di meno di contare almeno come un terzo di un lombardo o di un toscano. Un terzo, cioè il 66% per cento in meno. È un bello sconto.