Sull’Occidente e sull’Europa in particolare (Russia compresa) pesa un enorme complesso di colpa. Lo sterminio da parte dei nazisti di milioni di ebrei – che oggi possiamo conoscere con libri di storia ma soprattutto con le foto e i filmati del tempo – è infatti percepito come “colpa egli europei”, non solo come infamia dei tedeschi.
Le persecuzioni degli ebrei dopo la guerra in altre parti del mondo e in Russia e nei Paesi sotto controllo dell’Unione sovietica hanno alimentato questo sentimento.
A lungo ha anche pesato l’idea che il giovane Stato di Israele fosse Davide, futuro re dei Giudei che sconfisse il filisteo Golia acerrimo nemico di Israele “alto sei cubiti e un palmo. Aveva in testa un elmo di bronzo ed era rivestito di una corazza a piastre, il cui peso era di cinquemila sicli di bronzo. Portava alle gambe schinieri di bronzo e un giavellotto di bronzo tra le spalle. L’asta della sua lancia era come un subbio di tessitori e la lama dell’asta pesava seicento sicli di ferro”.
Golia era, nella percezione prevalente, tutta la comunità araba che circondava il nuovo stato nato nel 1948 dopo la fine del mandato inglese.
Da subito la prima guerra combattuta dagli Israeliani contro gli arabi e i palestinesi dimostrò il coraggio, la forza, l’abilità dei coloni ebrei diventati cittadini finalmente di uno Stato.
Questa premessa per dire che è un dato irreversibile della storia la ripulsa dell’antiebraismo, ma questo non deve impedire la critica e se occorre la condanna dello Stato di Israele. Perché uno Stato ha l’identità di coloro che lo governano e Netanyau, con il suo rozzo ministro delle colonie, che non ha trovato di meglio da fare di una passeggiata sull’area della Moschea di Al-Aqsa, luogo santo per eccellenza per i musulmani, non è Rabin, non è Golda Mayr, non è soprattutto Ben Gurion.
E oggi non la reazione ai morti e prigionieri fatti da Hamas, ma il genocidio, che si sta compiendo tra i civili palestinesi e che alla fine saranno decine di migliaia a Gaza e nella Cisgiordania, è imperdonabile.
L’Israele di oggi non ha niente a che fare con lo Stato democratico (ma senza troppa enfasi) che ha il diritto di essere difeso e difendersi dal terrorismo (sapendo che non tutta la resistenza palestinese può definirsi terrorismo).
In un altro articolo ho ricordato che sono proprio gli israeliani con i propri storici, con i propri letterati, con una parte assai consistente dei cittadini che non tacciono le responsabilità politiche del proprio Stato. Non solo non hanno protetto palestinesi pacifici dai nuovi coloni responsabili di espropri, violenze, espulsioni dalle proprie abitazioni, ma li hanno incoraggiati, favoriti e portati con un partito integralista al governo.
L’idea o la prospettiva dei due Stati è stata sepolta da almeno 15 anni. Colonie a 5 km dalle mura che circondano un carcere a cielo aperto sono una prova di forza, che anche senza colpa dei coloni ebraici suona irridente. Un rave party, assolutamente legittimo, con la musica a palla che supera la barriera dei “prigionieri” di Gaza, non è stata un’idea innocua. Ciò beninteso non assolve i crimini di Hamas.
Per chi abbia dimenticato come è nata la “questione palestinese” debbo citare il libro dello storico ebreo più coraggioso e rigoroso, Ilan Pappè.
Non è una brevissima citazione ma non contestabile.
Un pomeriggio il 10 maggio 1948, i leader della comunità ebraica in Palestina insieme ai loro comandanti militari presero la decisione di occupare il 78% del paese (nell’Intesa di fine mandato era stato previsto che al nascente stato di Israele andasse meno del 40% dei territori) (…) in quel 78% (equivalente all’odierna Israele senza i territori occupati) viveva un milione di palestinesi, la cui maggioranza fu espulsa a seguito di ordini dati alle forze sul campo.
Gli ordini specificavano in che modo condurre l’operazione: intimidazioni, assedio dei villaggi, bombardamento dei quartieri (quelli odierni non sono una novità), incendio di case e campi, espulsione forzata e piazzamento del tritolo tra le macerie per impedire il ritorno dei residenti cacciati”.
Ora almeno 4 o 5 generazioni di quei palestinesi vivono o a Gaza (meglio dire, muoiono a Gaza) in Cisgiordania dove si stanno insediando buona parte degli 800mila coloni in gran parte provenienti dall’URSS o dalla Russia di Putin con la pretesa di scacciare i restanti palestinesi, e due milioni vivono mal sopportati in Giordania la cui popolazione è per metà palestinese. Non si possono quantificare i palestinesi sparsi nel mondo ai quali comunque è negata la possibilità di ritorno.
Tutto questo per ribadire che gli innocenti e le vittime non sono solo in una parte, che la vita è sacra allo stesso modo per ebrei e musulmani, che pensare che milioni di palestinesi sbattuti fuori dalla terra nella quale convivevano pacificamente con i primi ebrei insediati e in centinaia di migliaia da decenni costretti a vivere in campi privi di ogni servizio, con le poche risorse che provengono da Organismi dell’ONU, è un fantasia allucinatoria.
E oggi il mondo, Europa compresa, con due guerre in corso e altre minori in atto o in preparazione rischia grosso e non può dire che dei palestinesi (e degli israeliani) non se ne frega nulla. Va bene per i litigi di condominio, non per tutto il resto che è fuori e anche lontano.
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Sono d’accordo, conosco abbastanza la storia. Ma aggiungerei con quale discernimento lo stato di Israele fu configurato in modo da dividere in due la Palestina , oltre che a privarla di punto in bianco di una così grande parte di territorio? Con quale rispetto degli altri venne attuata questa divisione? Il peccato da cancellare casomai era dell’ Europa, non certo lo dovevano pagare i palestinesi. Israele nasce su di un peccato originale, per non parlare di tutti gli altri commessi in seguito. Negli anni ’60 fui testimone in Giordania ed a Gerusalemme del comportamento predatorio di Israele. Ha soltanto continuato, Netanyahu è soltanto la ciliegina sulla torta.