Il calabrese è per natura considerato ospitale, accogliente, disponibile con il forestiero, che da noi ha una accezione molto ampia, va dal milanese al turco, dal veneto allo spagnolo.
Nella mia esperienza di nostalgico di Cosenza, dove sono nato, e che mi sorprendo a pensare con difficoltà come parte della Calabria, quasi avesse un’identità e meriti che la fanno diversa, quando tornavo in treno da solo, avevo 11 o 12 anni, per ritornare dalla mia magnifica nonna paterna, Teresina de Dominicis, baronessa squattrinata, non avevo motivo di pormi il problema se dai miei amici o parenti sarei stato accolto con affetto e gioia sinceri. La mia Cosenza coincideva con un circolo familiare e amicale, abbastanza ampio ma non tale da rappresentare nelle sue virtù (i vizi erano esclusi per eccesso di amore) la città reale, che era comunque ben diversa e migliore dell’attuale.
Le cose cambiarono quando la città che contava poco più di 50.000 abitanti cominciò ad attirare gli abitanti dei comuni vicini e del contado: ma la sensazione che era stata realtà quando a 4 anni partivo da casa mia a via Piave in direzione di via Monte Grappa o via Sabotino, dove abitavano mia nonna e una persona che ho amato, ricambiato, come una seconda mamma, era rimasta la stessa. Il ricordo era più forte del cambiamento della realtà. Ricordavo, e lo feci a lungo, per anni, che decine di occhi di persone non mi perdevano mai di vista per essere sicuri che le poche macchine in circolazione non mi investissero. Lo ricordavo come una specie di attenzione premurosa che la grande città, Roma, non aveva o non esibiva.
Mi rendo conto che questa introduzione che sembra copiare un romanzo di Fogazzaro non può essere il metro di giudizio di Cosenza quale è oggi. Rimane un’attitudine all’accoglienza e alla cordialità, ma certo non è l’eden per chi pensa di essere accolto a braccia aperte.
Giovanni Sole, l’antropologo che ho più volte citato, che descrive il passato dei calabresi anche lontano, ricorda che gli storici esaltavano dei calabresi la generosità, la sensibilità e il senso di ospitalità.
“Quando si varca la soglia di una casa è d’obbligo assaggiare il vino, salumi e prodotti dell’orto; di solito se ne esce carichi di doni per sottolineare il sentimento di amicizia”. Non dubito che anche oggi, soprattutto se entri nelle case delle persone più semplici, ricche di umanità a dispetto della loro povertà, questo accada ancora.
“In effetti”, continua Sole, “albanesi (ed ebrei) furono accettati dai calabresi ma a lungo segregati nei loro paesi ed esclusi dalla vita comunitaria”. C’è un proverbio ripetuto ancor’oggi che dice: “si vidi nu ghieghiu e nu lupu, ammazza prima lu ghieghiu e dopo lu lupu!”
I proverbi non vanno considerati come verità storiche, ma neanche presi come innocui modi di dire.
Per non disperdere del tutto l’immagine onirica che mi ha accompagnato per molte decine di anni non vado oltre nella ricerca di precedenti che smentiscono la mia testarda empatia.
Veniamo al presente, cioè a quando lasciato in anticipo il lavoro in FS, mi sono impegnato a trovare ogni occasione per giustificare una “scappata” a Cosenza.
Cominciai con l’abbonamento al Cosenza calcio, con partenza da Roma il mattino presto e rientro dopo la fine della partita. Ne valeva la pena perché grazie a Luigi Pellegrini, di cui ho ricordato l’affetto reciproco e profondo, che veniva con me allo stadio, ebbi modi conoscere alcune persone cortesi, tifosi sfegatati come me.
Non enumero gli altri pretesti per tornare qualche giorno a “casa” che furono molto meno gratificanti. Senza programmarlo ero entrato in contatto, per collaborazioni professionali non retribuite, con i membri delle cosiddette èlites, che allora come ora, con le dovute eccezioni, hanno poco o nulla dei caratteri e valori identitari dei calabresi/cosentini.
Ne ho conosciuti diversi quando a Villa Rendano, finiti i restauri, cominciò una fragile programmazione per individuare la missione della Fondazione che non l’aveva se non in termini generici, perché nata solo con obiettivi di solidarietà.
In quei primi anni pur frequentando diverse persone, docenti dell’Unical e professionisti stimati, non ricordo che mi sia stato proposto di prendere un caffè al bar o magari mangiare una pizza in trattoria.
Ora, tornando al saggio di Giovanni Sole, scopro che si “potrebbe ipotizzare che intellettuali e mediatori culturali prezzolati al che servizio delle grandi famiglie nobili, in seguito organici ai partiti politici e oggi prestino la loro opera per il mercato”, ecco non poteva esserci un vero interesse nei miei confronti anche solo per un caffè o una pizza in compagnia.
E ancora, saltellando qua e là, “professori, giornalisti romanzieri e artisti in genere presenzialisti per sete di guadagno, volontà di potere mediatico, rilasciano interviste e fanno conferenze in cui si atteggiano a profeti (…) professionisti della parola, per appagare il loro narcisismo puntano più alla pancia che alla testa (…) in Calabria non c’è città, paese o contrada che non bandisca una rassegna, un concorso, un premio con relativa generosa distribuzione di pergamene targhe coppe e compensi, appuntamenti che sono vere e proprie fiere di vanità dove il pubblico (le cosiddette elites) si ritrova più per amore di mondanità che per interesse culturale”. Non c’ è più spazio per trovare tracce di quei lontani ricordi della Cosenza che avevo fedelmente e ingenuamente custodito ma soprattutto oggi capisco che l’ambizione di realizzare a Villa Rendano progetti culturali e attività non comuni in una citta di provincia del Sud – poco utili a soddisfare la vanità dei relatori da una parte e la voglia di partecipare del pubblico mosso da genuino interesse per “l’esibizione” dell’intellettuale di turno, era una frutto della mia presunzione. Niente di nuovo strano e inedito oggi, a Cosenza ma non solo. Di nuovo c’è che per simili sceneggiate, molte identificabili con il termine marchette, oggi è disponibile grazie alla guida illuminata di un tale che si fa chiamare presidente (io affettuosamente lo chiamo “traditore” ed ora becchino) niente di meno che Villa Rendano, che anziché avere come brand “la città al centro” dovrà quanto prima ribattezzarsi “il nulla al centro”. Costo di tanta mission € 13milioni (dati da un ingenuo mecenate accompagnato da un meno ingenuo cofondatore, nel senso di realizzatore).
Si può rimediare a questa voglia di dare ai cosentini oltre che un bell’edificio destinato al degrado anche una offerta culturale, di partecipazione attiva alla vita della propria comunità, di conoscenza diretta di musicisti, artisti, intellettuali in grado di stimolare la conoscenza e la riflessione autentica dei partecipanti, di meritare con la propria area museale multimediale l’apprezzamento e il partenariato di istituzioni prestigiose – da ultimo Il museo della scienza Galileo Galilei di Firenze – , è possibile farlo?
Non credo affatto. La città dei poteri, arrogante ma spregiudicata, inadeguata e disistimata, che ha coperto la conquista illegittima della Fondazione per far tacere ICalabresi, per troppo successo e proporzionale gusto per la libera informazione, oggetto misterioso da noi, e per soddisfare l’ambizione smodata di un paio di falsi amici abbondantemente gratificati e remunerati, non può permettersi di perdere la faccia.
Quindi resta tutto come previsto? Forse si, ma a patto che come già accaduto si trovi cercandolo in tutt’Italia un magistrato che possa dirsi il nostro “giudice a Berlino”.