Il titolo, seppur provvisorio, del libro – che trovate anche su FB – che tra poche settimane sarà pubblicato e poi presentato anche a migliaia di nostri conterranei (fuori dalla Calabria vive il 30% di coloro che leggono I Nuovi Calabresi) è severo, ma il libro dedica metà delle sue pagine a raccontare le realtà virtuose locali che sono oscurate da quelle “tossiche” che prevalgono, sia nella realtà sia nell’immagine.
In questi giorni il coautore Giuliano Corti con Diego, fotografo e filmaker, stanno viaggiando in Calabria per potere conoscere e descrivere queste “isole rosa” che ci danno un po’ di speranza e senso al nostro lavoro di denuncia.
Ma il problema nel suo complesso resta: l’immagine, la narrazione, ma anche la realtà trasmettono l’idea che “la situazione della nostra terra sia pressoché irrecuperabile”.
Lo hanno detto e scritto in tanti, ma voglio citarne uno solo, tratto dal documento che un dirigente e militante, Gioacchino Criaco, del PCI doveva presentare alla Conferenza programmatica a Reggio dopo i moti violenti guidati dalla destra, ma con larga partecipazione di cittadini.
A me pare interessante perché nell’articolo pubblicato solo nel 2017 su Zoom Sud emergono le contraddizioni tra chi crede e vuole l’impegno totale per il cambiamento e la maggioranza che non crede all’utopia e pur non apprezzandola vuole tenere conto “per realismo” dei dati oggettivi della società calabrese.
Questo realismo, discutibile ma non campato in aria del PCI e nelle diverse denominazioni di quel partito, oggi il PD, è diventato acquiescenza, mancanza di attrattività, complicità in Calabria in particolare per la disqualità della sua classe dirigente, ma in modi diversi in gran parte d’Italia.
Il documento che Criaco portò alle Botteghe oscure, storica sede del PCI, si intitolava “Per una città alternativa”, ma l’analisi di Criaco prioritariamente destinata a Reggio era estensibile a gran parte della regione.
Riassumo il pensiero di Criaco perché potrebbe valere ed essere seguito anche oggi. Ma come 50 anni fa il post comunismo in nome dello storicismo ideologico continua a essere molto prudente sul versante del cambiamento che alle condizioni odierne deve essere “radicale”, facendo tabula rasa della classe gerontocratica che lo governa da decenni con risultati positivi solo per l’incremento del suo potere.
“Quando portai, felice e contento di farlo, nella mitica sede del Pci a Botteghe Oscure, il documento fresco di stampa (uno dei primi documenti elevati a tale rango a fronte di una lunga tradizione di ciclostile) nella storica tipografia dei comunisti reggini di Biroccio, mi dovetti subire una dura reprimenda. La città, mi disse Chiaromonte, è una realtà concreta ed è il luogo dal quale partire per costruire un progetto di graduale cambiamento; la “città alternativa” è nell’immaginario delle vostre teste (si riferiva ad una nuova generazione di comunisti che, a metà degli anni Settanta, si stava affacciando all’impegno politico) e, partendo da una costruzione astratta, non vi incontrerete mai con il reale. Non aggiunse, ma io lo compresi, che la critica era ad un’impostazione ideologica che pretendeva di calare nella realtà una società da noi astrattamente immaginata.”
Criaco dice: “è un’intera società che uno stato inetto, complice ha progressivamente distrutto o contribuito a distruggere, e che adesso non potrà essere ricostruita con magie, illusioni o ulteriori distruzioni”.
Era il tempo del “compromesso storico” non ancora realizzato e poi spazzato via dalla morte di Moro. Chiaromonte era un meridionalista prestigioso e dirigente di vertice, era scontato che quella “fuga dalla realtà” come era interpretato il documento di Criaco – in realtà era un atterraggio neanche troppo morbido sul terreno duro della realtà – non fosse apprezzato da tutti. E vinse, come era ovvio, Chiaromonte che interpretava il pensiero dell’intero gruppo dirigente.
Criaco non era un visionario, ma aveva in quel tempo una classe dirigente nazionale e territoriale di ben altro livello rispetto al presente e anche senza “l’utopia” del giovane reggino il PCI era in condizione di rappresentare gli interessi delle fasce più deboli della società, era immune da clientelismo e affarismo, faceva opposizione e pur con la ricerca di un rapporto positivo con i cattolici, termine più generico e meno imbarazzante di DC, non rinunciava alle sue proposte programmatiche e ad un’azione di sostegno in Parlamento e nelle piazze.
Oggi la Schlein, che da neoiscritta al PD ne è diventata segretaria, è altro rispetto ai suoi meno recenti predecessori e il corpaccione del PD è più avvezzo alle comodità del potere che alla “lotta”.
Per verità storica anche il MSI, anch’esso passato per nomi diversi sino all’attuale FdI, finita l’epoca dei nostalgici soddisfatti solo di esistere, con Almirante ebbe una svolta facendo nascere la “destra sociale”, cioè non più ideologica, ma orientata al “popolo” cioè alla società più debole e meno tutelata.
Oggi Giorgia Meloni – con tutte le sue contraddizioni in parte dovute ad un’alleanza scomoda con la Lega di Salvini – richiama quella vocazione sociale, perché per vincere da destra o da sinistra bisogna occuparsi seriamente dei diritti sociali prima che individuali. Niente da dire contro la lotta all’omofobia, ma senza lavoro, con stipendi da fame, con un costo della vita che è quasi pari a quello medio dell’Europa che ha salari doppi o tripli rispetto all’Italia, a cosa pensate che la gente dia priorità?
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Avremmo bisogno di ritrovare quei giovani degli anni ’70 oggi settantenni che fuori dai giochi di potere hanno continuato a mantenere idealità che male si coniugano col burocratismo, e che sono pronti ad allearsi con i ventenni, lasciando un po’ da parte tutti i mestieranti, e in una nuova sintesi si potrebbe riprendere una stagione di radicalità sui diritti..