Questo articolo è nato dalla lettura di un libro, ma non è una sua recensione, non perché esso non la meriti, anzi è vero il contrario, ma perché essa sarebbe fuorviante, sarebbe catalogata come un rito che si ripete ogni qual volta esce un libro che i giornali debbono proclamare – previa recensione di firma illustre – opera capolavoro, magnifica, sorprendente. Ne consegue che devi correre a comprarlo in libreria se non vuoi apparire un eretico nel perimetro salottiero dove libro ed autore vengono evocati come una presenza imperdibile.
Il libro si intitola Sodomìa, già fuorviante di suo (e spiegherò subito perché) il cui autore è Saverio Di Giorno, giovane paolano, dottore di ricerca sull’analisi economica della criminalità organizzata. È soprattutto uno scrittore, coraggioso e non poco, va da sé, che ha puntigliosamente letto atti giudiziari, verbali di pentiti e collaboratori di giustizia, molti chiusi in cassetti da tempo immemorabile e, soprattutto, ha sentito dalla viva voce di Franco Garofalo, collaboratore di giustizia, le rivelazioni già fatte ai Magistrati inquirenti.
Partiamo dal titolo, che non vuole richiamare le anime dannate che Dante colloca nel VII girone dell’Inferno, ma ha un doppio riferimento: al libro 19 della Genesi nella Bibbia e a Pasolini regista del film Salò o le 120 giornate di Sodoma.
In effetti, il libro che vede l’autore Di Giorno nella duplice veste di personaggio e spettatore di un racconto fedele di una città, la nostra Cosenza, che vorremmo poter descrivere – contro l’evidenza della realtà – accogliente, innocente, immune per quanto umanamente possibile da brutture, violenza, corruzione e morte.
Ma Cosenza è Calabria cioè “la punta dello stivale”, evocativa di una posizione prominente e prevalente sul resto d’Italia, ma la Calabria “è non la punta” – scrive impietosamente l’autore – “è “la suola” dalla quale si vedono le cavità nasali, le sottane, le forme più imbarazzanti dell’Italia e della sua storia”.
Lo racconta il collaboratore di giustizia Franco Garofalo all’autore, che per coerenza con la duplice identità, narratore e attore della storia, ce ne rende partecipi, anche come semplici lettori di un racconto sconosciuto o invece attori di seconda fila o semplici comparse nella storia.
Franco Garofalo dice che si è trovato “in questa situazione per il lavoro”. L’altro protagonista della storia, un operaio, ha pure lui un problema di lavoro, ma è quello che cerca e fatica a trovare, ma poi non ha niente da spartire con l’altro, che il lavoro poi l’ha trovato e scelto, ma a costo di vendersi l’anima e bruciarsi la vita.
La Calabria è dove si dice: chi lavura mancia, chi non lavura mancia e viva. Dove viva significa beve, ma anche chi non lavora mangia e vive.
Se devi lavorare significa che non sei stato abbastanza furbo da poter vivere, appunto, senza lavorare. Te lo insegnano subito. In questo pensiero è sottinteso che il lavorare riduce la vita a esistenza, a mero esercizio di respirazione. Insomma effettivamente il “lavoro”, come una specie di eterogenesi dei fini, è ciò che produce un boss e anche un onesto operaio.
Ma abbiamo premesso che non vogliamo fare una recensione del libro, ma neppure concentrarci su storie individuali. Ciò che interessa è il racconto di una città che poco alla volta si perde, nel senso che diventa altro, molto lontana, rispetto a quella cittadina che aveva un carcere, oggi diventato il suo contrario, Galleria Nazionale, dove domina il bello dell’arte e della creatività, che è la forma estrema di libertà, dove sporgendosi dai finestroni con sbarre i detenuti, in gran parte poveri cristi non pericolosi assassini, parlavano senza filtri con i parenti e gli amici, quasi fossero lì in visita di cortesia, passavano pacchi che si dava quasi per scontato contenessero vestiario e salsicce e caciocavallo.
Quel tempo, quella Cosenza a partire dagli anni 70 non ha niente in comune con il suo passato recente, ha perduto la sua innocenza, è diventata, scrive, l’autore una specie Beirut bis.
Ma questa è un’altra storia che si compie fino al presente e non essendo né bella né confortante la racconterò tra un paio di giorni.
Non per creare suspence per non deprimere oltre il tollerabile decine di migliaia di cosentini per bene.
Cosenza come Beirut scrive Di Giorno. In effetti la “guerra” inizia a fine 1977 quando viene ammazzato Luigi Palermo detto “U Zorru” da due killer di Franco Pino, esponente di spicco della criminalità cosentina. Scontata la reazione dell’altro boss Franco Perna che pure con Pino si era diviso tutta la provincia dall’interno alla costa. Meno di un anno prima s’era tentato un agguato nei confronti di tale Sena, boss alleato di Franco Pino.
Su quegli anni di guerra – nel solo 1981 diciannove omicidi e centinaia di rapine – non mi pare necessario dilungarmi. Riporto solo poche parole significative dal libro: “Cosenza in alcuni giorni ed in alcune aree aveva un coprifuoco tacito, nel quale venivano digerite vite, bruciate nelle traverse”.
A me pare molto più interessante e inquietante il contesto durante gli anni della guerra di mafia che almeno parzialmente non è granché cambiato oggi.
Ancora una volta la descrizione dei santuari del potere la lascio all’autore del libro, che è fedele e perfetta.
“Ogni potere erige i suoi mausolei per celebrarsi e rendersi eterno. Tali mausolei sono le aree riservate del night: terrazzamenti che danno sul mare scuro sulla costa (…) È la gerarchia sociale. I gradini del privè sono le scale del tempio dell’unico Dio. Gli oli sono cocktail e alcol, gli incensi il fumo o le strisce di polvere da tirare (…) Questo vale per le discoteche, ma si potrebbe dire lo stesso dei ristoranti e degli alberghi. In questi simulacri banchettano e compiono il rito del potere pezzi di magistratura, imprenditori e proprietari di attività ed esponenti della malavita organizzata (…) Più in là si sarebbero aggiunti anche i politici, quando non ci sarebbe stata nemmeno l’apparenza da salvare”.
Ecco questo è “il contesto” che non mi sorprende – con gli opportuni aggiornamenti “esso vive e fiorisce” ancor’ oggi tra di noi – non mi sorprende (capita anche in altre città d’Italia) ma mi indigna, mi sbatte in faccia che ho sbagliato molto nella fedeltà da lontano alla mia città natale, mi sento preso in giro ed ora sento come intollerabile la violenza e il tradimento osceno che è stato fatto a Villa Rendano e al giornale che avevo fondato e diretto.
Un caro amico che stimo ha pubblicato su FB alcune frasi di Buddha: Le cito perché sono molto belle e vere: “Alla fine solo tre cose contano: quanto hai amato, come gentilmente hai vissuto e con quanta grazia hai lasciato cose non destinate a te”.
Parole sante ma per quel poco che conta non tali da far cambiare i miei sentimenti.
La lunga citazione del libro di Di Giorno portano alla ribalta personaggi che in questo contesto non dovrebbero proprio esserci, neppure da soli per bere un caffè. Ed invece magistrati compaiono anche senza pudore e prudenza nella storia passata e presente di Cosenza.
Non esprimo una mia opinione perché lo faccio solo quando ho conoscenza e prove dirette dei fatti.
Leggo a pag. 83 di Sodomia: “Le connivenze della famiglia Nicastro, procuratore capo di Cosenza, sono un esempio pratico di questa mistura maleodorante: una nipote del procuratore ha financo sposato uno dei killer del clan Perna (…) Il fratello del procuratore, invece, tale Sandro Nicastro, era proprietario del night La perla a Cetraro, divenuto nel tempo un simbolo del clan Muto”.
Ciò che l’autore ha scritto per il vecchio Procuratore capo di Cosenza valeva anche per i procuratori di Paola, tra cui Belvedere. “Li si vede circolare per la costa con auto sportive, avere mille affari, indebitarsi e a coprire arriva il clan Muto”.
Nel 1980 viene ammazzato un consigliere di Cetraro del PCI Giannino Losardo. Nessuno parla, nonostante lui morendo dica: “Tutti sanno mi ha ammazzato”. I probabili assassini saranno assolti in un processo che si celebrerà a Bari. Garofalo dice a Saverio Di Giorno con riferimento ad un altro processo: “Il canale è sempre quello usato da Muto per l’omicidio Losardo”. Possibile che dichiarazioni a verbale di vari pentiti, Franco Garofalo tra questi, non abbiano suscitato la voglia di approfondire e verificare? Bravura degli Avvocati? Certo, ma in molti casi la bravura è in compagnia di altre opportunità diciamo “relazionali”. La malavita ‘ndranghetista nelle parole del collaboratore di giustizia parla di “avvocati stipendiati” per realizzare una specie di “economia di scala”. Avvocati stipendiati e ricorrenti nelle principali vicende cosentine: da compravendita di sentenze a omicidi come quello Bergamini.
È inutile aggiungere altro, Garofalo è pronto a ripetere il tutto – dice – se qualcuno vorrà sentirlo. La lettura di Sodomia vi rivelerà nomi, categoria di appartenenza, politici noti e a lungo dispensatori seriali di favori, assunzioni ed altro ancora che hanno costruito così il potere che permette a pochi affaristi di controllare sanità, stampa, cemento.
Vi dirà i nomi di Magistrati onesti, il procuratore Facciolla assolto di recente dal CSM dopo anni di ostracismo, l’ex Procuratore Generale di Catanzaro che ha presentato esposti, sollecitato ispezioni da parte del CSM e del Ministro il cui esito è sconosciuto, coperto da dita di polvere in qualche armadio blindato. Anche lui perseguitato. In Sodomia le dinamiche, i ricatti così come emergono da intercettazioni. Un’ultima domanda: e le migliaia di cittadini onesti e coraggiosi cosa hanno fatto o detto?
E così le migliaia di giovani studenti dell’Unical giudicati pericolosi sovversivi al punto di convincere il gen. Della Chiesa ad ordinare un duro intervento repressivo? Scomparsi e molti riciclati con soddisfazione.
In sintesi l’opinione pubblica, poco informata per la verità da una stampa votata alla disinformazione? Lascio la parola all’autore:” La Calabria è una terra senza opinione pubblica, nemmeno finta come nel resto d’Italia”.
In linea di massima concordo, ma l’esperienza prima con ICalabresi ed ora con I Nuovi Calabresi – in totale centinaia di migliaia di lettori che hanno letto, scritto, apprezzato e condiviso denunce e accuse documentate anche a mammasantissime – mi rendono meno convinto. E l’arroganza e l’imbecillità di alcuni “killer da strapazzo”, con protettori fuori dal tempo e anche curiosamente ancora fuori da processi pendenti da lungo tempo come si fa con i pomodori per farli rinsecchire, penso che non passeranno impunite.
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È proprio vero una città dove alle denunce non segue nessuna reazione dall’opinione pubblica da tempo assopita.