Ciò che sta accadendo in Francia, scontri da guerriglia urbana, una rabbia che oggi parte dalle minoranze del Magreb, francesi anche da tre generazioni e mesi fa dalle proteste per una riforma delle pensioni, che confrontata con quella della Fornero sembra un buffetto sulla guancia, segnala che c’è un problema immigrazione, ma niente affatto assimilabile a quella degli ultimi anni costituita da disperati che fuggono dalla guerra o dalla fame o da una povertà che non ti consente di sopravvivere.
Si dimentica che la Francia, come la Gran Bretagna, è stato un Paese colonialista, la seconda lo stesso con la “autorevolezza” dell’Impero. Alle minoranze arabe e nere l’indipendenza dell’Algeria e della Tunisia in primo luogo ha dato la possibilità di vivere nella Francia metropolitana con i diritti, almeno formali, dei cittadini francesi.
Lo stesso è avvenuto con il Commonwealth britannico.
Secondo questo schema noi dovremmo avere solo immigrati somali o etiopi, perché per qualche anno li abbiamo colonizzati o governati su mandato dell’ONU.
Almeno su questo facciamo un po’ di chiarezza perché riproporre lo schema, che anche la Meloni avalla, che l’arrivo di immigrati con carrette del mare da noi sia un fenomeno che necessariamente sfocerà nella “rivoluzione” delle banlieue è un falso.
Ciò che invece è fattor comune è che un Paese europeo che accoglie o deve accogliere immigrati, regolari o clandestini (anche qui regna una gran confusione, perché tra “i clandestini” ci sono decine di migliaia di rifugiati politici che la legge internazionale protegge) non può confinarli in periferie squallide, veri e propri ghetti, dove naturalmente le generazioni giovani nutrono un rancore sordo incontrollabile specie quando a “nobilitarlo” c’è la motivazione religiosa che è anche fortemente identitaria.
Lo stesso in misura ridotta è accaduto anche in Italia, ma se possibile in modo ancora più improvvido. Non è accaduto con neri o arabi – anche se non meno scandaloso, ma a lungo andare pericoloso, con cittadini italiani, cioè nativi.
Cosa sono le malfamate Vele di Secondigliano, se non un ghetto ingovernabile che offre centinaia di giovani alla delinquenza e allo spaccio? Cosa è il Quartiere Zen di Palermo con analoghi effetti? Cosa è il mostruoso serpentone di Corviale a Roma di quasi 1000 metri di lunghezza per nove piani e 4500 abitanti? Tanti altri sono sparsi in mezz’Italia.
Sia chiaro che non tutti sono diventati ghetti impenetrabili, ma tutti rispondono al modello dell’utopico falansterio di Charles Fourier, filosofo francese di fine Ottocento. Concepito come base del suo sistema sociale egualitario, il falansterio è una comunità di produzione, consumo e residenza.
È ovvio che si parla di “seduzione” per una generazione di architetti fortemente ideologizzati a sinistra e non di una replica pure e semplice. Se ricordiamo gli anni in cui questi mostruosi agglomerati soni nati, i terribili anni ’70 e ’80 delle ideologie ottocentesche redivive e della violenza post ’68 forse possiamo fissare la data ufficiale di nascita nelle forme attuali della segregazione, emarginazione sociale, frattura fisica delle città.
Nessuno pensa che non ci possano essere nella società condizioni economiche, culturali, politiche assai eterogenee, ma come insegna oggi la Francia, da sempre l’America, a giorni alterni in Gran Bretagna la ghettizzazione non è una soluzione, ma un incubatore di guai peggiori.
In Italia per una cultura più accogliente e in genere (ma in forte calo) tollerante non siamo a questi livelli. Ma le baraccopoli di Rosarno o nel Foggiano o certe zone della stessa Cosenza off limits si iscrivono nella categoria dei ghetti. Credo che Cosenza in particolare, dove gli immigrati da lungo tempo o più recenti sono assai numerosi possa essere un buon esempio di integrazione e di accoglienza. Ma questo è un tratto costitutivo della nostra terra, che dobbiamo difendere da chi ottusamente ci vorrebbe convertiti all’intolleranza e al razzismo.
Non ci riusciranno, ma certo qualche ferita la lasceranno sulla nostra pelle.
Se non vogliamo guardare anziché la luna il dito che la indica, proviamo a emanciparci per quanto possibile dalla paura, dall’incubo per molti dell’invasione di immigrati che nel tempo ci renderanno quasi minoranze nel nostro paese – il caso francese è figlio, in gran parte del colonialismo -, pensiamo piuttosto che quando la società produce masse crescenti di poveri, pur lavorando, o di disoccupati o falsamente occupati (basta aver lavorato una settimana che le statistiche ti registrano con indici positivi crescenti) le tensioni prima o poi esplodono. Non ce lo auguriamo, ma non possiamo affatto escluderlo. Contratti precari al massimo grado, retribuzioni che solo in Italia nell’ultimo decennio sono calate del 2% mentre in tutta Europa sono aumentate anche a due cifre, un paese fratturato tra nord e sud, giovani e anziani, tra crisi contingenti e altre strutturali, prima o poi reagisce. Di norma si fa con la politica, quella seria non alla Santanchè, con classi dirigenti di alto profilo, con una pubblica amministrazione qualificata e non autoreferenziale, ma obiettivamente chi di noi si affiderebbe a questa visione utopica?
Grazie a Dio non siamo alla rivolta delle città francesi, che periodicamente si producono, o a quelle degli slums americani, ma c’è una regola non scritta, ma ricavata dalla storia, che a parità di fattori si realizzano gli stessi effetti.