Questo articolo non era previsto ma lo scrivo con convinzione, ma anche con sentimenti misti di ostilità e di amore per la nostra Calabria (sarebbe più giusto dire: per il nostro Sud) dopo aver visto un film, uno splendido film titolato “L’abbaglio”, diretto da Roberto Andò e interpretato da Servillo, Ficarra e Picone, sorprendenti protagonisti.
Dico subito che meriterebbe di essere visto da milioni di spettatori, soprattutto meridionali ma non solo, principalmente dai giovani e ragazzi del Sud accompagnati però da insegnanti severamente selezionati per onestà civile e intellettuale. Ce ne sono forse tanti nelle scuole meridionali, ma dubito che siano la maggioranza. A me, che avendo smesso di insegnare dopo dieci anni con la consapevolezza che ero obbligato dalla miseria della retribuzione a lasciare il lavoro più bello e gratificante (e ne ho fatti diversi di lavori e continuo a farli oggi con i capelli bianchi) che si possa fare.
Ma non è questo ciò che mi preme dire. Il film narra ciò che accade ai mille guidati da Garibaldi appena sbarcati in Sicilia.
Ciò che viene raccontato è quel che ancor’oggi siamo, noi meridionali, siciliani, ma anche calabresi e con tratti diversi. Cittadini italiani a sud di Roma ai quali moltissimi altri italiani del nord guardavano e purtroppo continuano a guardare come fossimo una massa di gaglioffi e scansafatiche. Certo ce ne sono dalle nostre parti come ovunque di gaglioffi, mafiosi, imbroglioni, ma noi non solo accettiamo questo intollerabile pregiudizio, siamo anche così servili e autolesionisti da votare alcuni delle nostre fila sotto il simbolo di un partito che non ci ama e non ci vuole conoscere.
C’è nel film il racconto del primo incontro con i siciliani di Garibaldi e dei suoi amici più noti e rappresentativi.
L’eroe parla in una sala – forse la sede comunale di un borgo qualsiasi – affollato all’inverosimile, ma con una divisione, una spaccatura resa evidente dagli stracci che vestono in maggioranza e dagli abiti neri con cappello in testa che vestono i padroni, quelli che comandano, che guardano a quell’esaltato di Garibaldi con freddezza, che diventa subito odio e ostilità radicale.
Nella realtà di quel tempo essi sono i latifondisti che vivono del sangue, del sudore, dell’abbrutimento dei miserevoli. Non c’era bisogno di andare al tempo della spedizione dei Mille. Bastava fotografare un consesso simile se non identico dopo la fine della Grande Guerra o della realtà al tempo della caduta del fascismo.
L’impressione che ne ho tratto – ma con altri nella sala adattata a cinema della città gioiello della Maremma dove ho scelto di vivere da molti anni per periodi più o meno lunghi dopo la “cacciata” da Cosenza stabilmente – è che quella divisione modificata e aggiornata tra signori e semplici rassegnati cittadini, la chiamerei con un termine più duro “frattura”, ci sia nel Sud in particolare ancor’oggi. Al posto dei latifondisti trovi esponenti della borghesia professionale – avvocati di grido e spesso di servaggio, uomini di legge compiaciuti di aver accanto dei “fuorilegge”, massoni deviati così si chiamano, politicanti saltafosso ma perenni e inutili se non dannosi, imprenditori (dove la dizione “IM” è del tutto impropria), esperti di finanza e consiglieri, addirittura magistrati. A detta del più famoso oggi da noi, Gratteri, ce ne sono almeno 200 corrotti – e temo che sia un calcolo ottimistico. A questo proposito mi viene da chiedere, per ora a me stesso, un giorno a Gratteri in persona come faccia a dare questi numeri e poi a santificare in blocco la corporazione dove gli onesti, i capaci, i servitori dello Stato sono la grande maggioranza, ma non la totalità (ipse dixit) mentre rivolge accuse di fuoco anche fondate alla politica definendo l’attuale Presidente del Consiglio “più furba che intelligente”.
Ma torniamo ai signori fedeli ai Borboni: nel film il generale delle truppe della Casa reale usa la lingua francese per marcare l’estraneità antropologica dei capi con gli straccioni siciliani mentre oggi altri imbecilli e ignoranti di storia patria raccontano le gesta non proprio commendevoli del re Borbone con cialtronesca nostalgia. Non solo leghisti ma pure borbonici, siamo proprio insalvabili.
Per avviarmi alla fine: se uno in buona fede è convinto che nel Sud e in particolare in Calabria – una mia “fissa” essendo calabrese reietto – gli abiti sono cambiati ma i padroni ottocenteschi che chiamerei “2.0” ancor’oggi fanno il bello (poco e raro) e il cattivo tempo come i loro predecessori alla faccia della gente comune – uno che si sente e ora azzarda a definirsi “patriota del sud”, convinto sino alle lacrime dalle immagini di un bel film, come fa a dire che della sua terra, schifato, d’ora in poi se ne fotte? È una domanda e una palese contraddizione. Gli altri potrebbero dire ma “chi credi essere”? Un anziano redivivo garibaldino? La domanda è legittima ma ne ho anch’io una da fare: e voi che ostentate di essere tutto il meglio con diritto ereditario a comandare e dire a tutti gli altri, me compreso naturalmente, “nua simu nua, vua non siti nu cazzu” mi dite per favore che diamine dovrei fare? Chiudere baracche e burattini che è e resta l’opzione principale o, turandomi il naso, da remoto (il ritorno a casa l’ho fatto ed è andato malissimo) continuare per il tempo e con le forze che mi restano “a rompere i cabbasisi”? Ma in questo caso – forse a causa dell’età che fa brutti scherzi – con la voglia, la determinazione, il gusto di fare una bella “pulizziata” di cialtroni ladri e parassiti che ho finalmente imparato a conoscere. Non so rispondere, ad esser sincero, ma se fossi uno scommettitore darei Franco Pellegrini a 10 e l’altro Pellegrini, uno per tutti, a 0.