Nel 1952 il regista Luigi Zampa girò un film titolato “Processo alla città”, che anticipava il capolavoro di Francesco Rosi con il film “Mani sulla città”. In un caso e nell’altro Napoli o un grosso comune della provincia erano le città, dove le storie si svolgono, entrambe con la presenza di camorristi e di speculatori della borghesia in combutta con camorra e politica corrotta.
Questo ricordo serve almeno a convincerci che il nostro Paese e il Mezzogiorno con la piaga purulenta della mafia hanno avuto non commendevoli rapporti.
In Sicilia la mafia la faceva da padrone, Palermo negli anni ’60 (ma anche altre città minori) veniva devastata dalla speculazione edilizia con due padrini di lusso, politici e amministratori e mafiosi, mentre la Magistratura si chiedeva ancora se la mafia esistesse veramente o fosse una “camurria”. La Calabria reggina e vibonese era dominio della vecchia ’ndrangheta, che si distingueva in faide familiari preparandosi alla più redditizia stagione dei rapimenti. Il dominio del mercato della droga era ancora lontano.
In questo quadro oscuro e spesso macabro Cosenza non c’era. Anche Catanzaro poteva dichiararsi immune.
Ma la realtà cambia rapidamente soprattutto quando si finge di non vedere in anticipo le nubi tossiche in avvicinamento, si racconta la bella favola dell’Atene del Sud o con l’aiuto non gratuito di Sgarbi si costruisce il racconto del centro storico ricco di storia ma anche di macerie e di abbandono, come “il più bello d’Italia”, come ho letto in un libro per ragazzi in una libreria milanese. Un racconto che piace a noi cosentini, perché serve a compensare i guasti della orrenda cementificazione degli anni ’70, con palazzoni che si cerca di nobilitare chiamandoli Palazzo Madama e Colosseo.
La delinquenza comune subisce un grave colpo con guerre tra bande e con un’azione repressiva finalmente degna di questo nome.
Ma i vuoti nella storia non esistono e quindi in galera i boss tradizionali sbarca in forze la ’ndrangheta negli anni ’70. È molto cambiata, basta con rapimenti e con gli ammazzamenti non proprio necessari, sì alla collaborazione con la borghesia delle professioni perché la mafia calabrese ha tanti capitali da investire e ha bisogno di professionisti spregiudicati ma anche competenti. E siccome molti di essi sono massoni, nasce una liaison interessata con alcuni settori, deviati, della massoneria risorgimentale.
Questo è il veloce e sommario excursus di Cosenza, definita brutalmente “città della ’ndrangheta” o “della massomafia”.
Per noi cosentini che avevamo conosciuto un’altra città, umana, accogliente, non violenta è stato un trauma. Ancora più grave per chi era vissuto lontano dalla città natale ed era rimasto fedele alla vecchia immagine, ulteriormente migliorata per un di più di amore.
Poi il “ritorno a casa” dopo 65 anni ha tolto il velo all’immagine artefatta e poco alla volta si è disvelata la realtà odierna, lontana mille miglia da quella custodita con fedeltà e amore.
Se questo è vero – e sfido chiunque a negarlo – oltre a svegliarsi dal sonno occorre decidere se c’è materia per mettere sotto processo Cosenza, come i film di Zampa e di Rosi avevano messo sotto processo Napoli e Torre Annunziata con mezza Campania. Oppure se è meglio riaddormentarsi e campare da sudditi ma tranquillamente.
A me pare che questa seconda opzione sia largamente prevalente e sembra non dispiacere allo Stato, che infatti manda a Cosenza Questori di prima nomina, che pensa a colpire 40 cittadini per una passeggiata tra le rovine di Cosenza vecchia e che pensa che il vero problema criminale sia l’usura – che pure esiste – alimentata dalle spese pazze delle signore bene per acquistare gli ultimi modelli di stilisti di fama internazionale.
O Prefetti, di prima nomina, persone per bene, che non muovono un dito nell’ambito dei poteri di vigilanza che spetta loro sulle amministrazioni pubbliche locali. E quindi ignora due richieste di verificare cosa è accaduto a danno di una Fondazione e di Villa Rendano che la signora prefetto aveva visitato e ammirato, al punto da indurmi a denunciarla “per omissione di atti d’ufficio” ben sapendo che finirà prima o poi in un archivio o direttamente nei contenitori dei rifiuti del Tribunale.
Ma pur con questa consapevolezza io credo che sia giusto e doveroso fare il processo alla città di Cosenza. È un processo che si fonderà su fatti, comportamenti, complicità conclamate ma con molto minore fascino dei Processi diventati film e che si spera divenga prima o poi un giudizio in un’aula di un Tribunale penale diverso da quello di Cosenza inaffidabile per legittima suspicione.
L’appuntamento alla prima udienza virtuale, quella che per la riforma Cartabia è destinata a mettere tutte le carte in tavola.
E attendiamo che la Corte composta da cittadini onesti e non vili entri annunciata non da un usciere ma dal titolo de I Nuovi Calabresi prossimamente.
1 Comment
Cosenza,ma quale Atene del Sud. Diciamo pane al pane e vino al vino. Come dimenticare che la Commissione Parlamentare Antimafia ,in visita nella nostra città non troppi anni fa, fu rassicurata e rispedita a Roma con la motivazione che la delinquenza quì non esiste piuttosto i problemi sono mancanza di lavoro e occupazione.