Ho scritto e detto più volte che il ritorno a casa, dopo molti anni di lontananza, è stato molto diverso da come l’avevo immaginato. Non sono così presuntuoso da pensare che sia capitato solo a me; anzi sono propenso a credere che molti calabresi e cosentini che abbiano deciso di tornare a vivere nelle città e nei borghi dove erano nati abbiano provato la stessa delusione, anche senza aver avuto l’aggressione e il tradimento che mi è stato riservato.
Ma cercando i sinonimi di delusione o peggio ho scoperto che c’è un nome specifico per questa “delusione” che in me ha procurato più rabbia che dolore e che rende per il momento non possibile il mio ritorno a vivere a Cosenza.
C’è infatti una forma d’ansia chiamata «solastalgia» che può, causare senso di alienazione, malessere, depressione. A generarla è la trasformazione dei luoghi che ci appartengono, non più riconoscibili agli occhi e alla memoria Ci sono luoghi del cuore in cui ci sentiamo «a casa». Posti che ci appartengono, dove conserviamo emozioni indelebili. Sono la città in cui viviamo, il quartiere che ci ha visti crescere, il borgo dove ci rifugiamo per relax: piccoli, grandi spazi in cui dimora la nostra identità, che ci completano. Ma cosa succede se la mano dell’uomo ne trasforma l’immagine, la svuota, la deturpa e la rende irriconoscibile agli occhi e alla memoria? Si definisce «solastalgia» quel senso di malessere che pervade un essere umano quando non riconosce più un luogo a cui è legato. «È una combinazione tra la parola latina solacium, che significa “conforto”; e della radice greca -algia, che vuol dire “dolore”», spiega Giuseppe Barbiero, docente di Biologia e direttore del LEAF – Laboratorio di Ecologia Affettiva all’Università della Valle d’Aosta. «Un neologismo coniato una ventina di anni fa dal filosofo australiano Glenn Albrecht per definire la nostalgia che si prova verso un luogo a cui avevamo legato degli affetti e che adesso ha una natura completamente diversa il senso di identità, fattore che è alla base dei fenomeni depressivi».
La scoperta mi conforta perché mi fa sentire meno solo, non mi fa dubitare che abbia ragione ad essere arrabbiato, deciso a perseguire nei Tribunali responsabili e o sono silenziosi sostenitori di un’azione criminale, non mi fa immaginare il ritorno a Cosenza se non solo per espellere da Villa Rendano un manipolo di delinquenti (non è un insulto perché cosi si chiamano coloro che “delinquono” cioè commettono illeciti o reati).
Ma il tempo e le risorse fisiche che ho a disposizione non sono sufficienti. Tra qualche giorno sarà possibile a chi vuole di dare un contributo a I Nuovi Calabresi ma con una chiara destinazione: rendere più forte con nuove collaborazione il giornale e darlo appena possibile gratuitamente a chi voglia gestirlo ma con la stessa linea editoriale, avere la collaborazione di un’agenzia stampa che faccia arrivare alla grande stampa nazionale i nostri temi e le nostre denunce (già acquisita con mie modeste risorse), avere se necessario risorse aggiuntive per far conoscere anche in sede giudiziaria la storiaccia di Cosenza, non più solo di Villa Rendano. Punire senza sconti un avvocato infedele, un cialtrone figlio di un galantuomo che ha tradito e irriso, una signora che ha speso il proprio tempo di consigliere della Fondazione, poco a causa di problemi di salute, per fare un mobbing velenoso ai danni di una nostra dipendente, di un medico che avevo chiamato il giorno che Giuliani era a rischio di morte e che è stato testimone di quanto impegno avevo speso per la Fondazione e per non lasciare solo come un cane Sergio. Essendo veneto un prototipo di “mona”.